Valentina Vellucci è ormai un nome riconosciuto in tutto l’ambiente digital italico. Attiva a Bologna – dopo esperienze a Verona, Milano, Rovigo – è socia di Magilla e frequenta i palchi dei principali eventi di settore italiani, dal Web Marketing Festival al fu Facebook Mastery. Alle 14,50 di giovedì 7 novembre sarà al Social Media Strategies, nel palacongressi di Rimini, per parlare di “Storie’s Insight”. Le abbiamo chiesto di questo e di altre stories…
Cosa ti ha spinto, all’inizio, a spenderti in professioni strettamente legate al web?
Mi affascinavano i computer. Da sempre. Quando per il diploma tutti chiedevano in regalo “il viaggio della maturità”, io chiesi un pc per poter andare all’università e averne uno tutto mio per studiare. In generale mi piaceva stare on line, leggere. Curiosare sempre, ovunque mi trovassi. E parlo del 2004: quando non c’erano Facebook, Instagram o Twitter. C’era questo internet vasto e pronto da esplorare. Questa rete immensa in cui perdersi. È stata la curiosità. La voglia di perdermi, di fare qualcosa che mi portasse a scoprire di nuovo e legarmi indissolubilmente al web.
Durante il Social Media Strategies terrai un panel intitolato “Storie’s Insight”. Ci puoi dare qualche anticipazione?
Si tratta di un panel focalizzato sul data driven applicato ai contenuti volatili, ovvero alle stories. Analizzare le performance di quelli che alcuni reputano ancora “contenuti minori” può aiutare un content strategist a indagare gli impulsi della propria community per uno storybranding totalmente realtime. Vedremo diverse tipologie di stories a confronto e cercheremo di capire come usarle in maniera adeguata.
Di recente si è molto parlato del corso per Influencer, organizzato da eCampus. Cosa ne pensi e come consideri gli influencer?
Penso che da una parte chi non arriva all’uva dice che è acerba. Dall’altra penso che nel 2010 ho iniziato a fare un lavoro che nessuno sapeva definire. Nei titoli di coda di un mockumentary cui contribuiti, mi definirono “l’addetta di Facebook”. Eppure oggi eccomi qui a lavorare in Magilla con altre 40 persone che fanno un lavoro in passato inesistente. L’influencer è un mestiere nuovo a tutti gli effetti. Chi li critica, nella maggior parte dei casi, non sa nemmeno chi né cosa stia criticando. Lo fa per frustrazione derivante dal proprio vissuto. Come se denigrare qualcosa che non si capisce potesse migliorare la propria condizione. Professionalmente credo in un determinato tipo di influencer marketing: quello in cui si è competenti verticalmente in qualcosa.

La competenza e la relativa capacità di saperla raccontare portano un determinato professionista a essere riconosciuto come influencer. Tutto il resto è noia. I follower su IG, gli outfit, i flame fra “ex-blogger”. Davvero. Noia pura. Gli influencer cambieranno nome (prima erano i ProAm, poi Trend Brand Lovers), pelle e media, ma esisteranno sempre e avranno ancora un ruolo chiave per costruire il trust fra brand e audience.
Sei in Magilla da quasi 8 anni. Cosa ci puoi raccontare di questo percorso e del tuo lavoro in agenzia?
Un percorso denso. Fatto di tante scelte diverse. Ho conosciuto Magilla durante il master in Marketing e Comunicazione di Professional Datagest. Lì ci siamo iniziati ad “annusare”. Poi, nel maggio del 2012, mentre ero in un’altra agenzia, incontrai nei corridoi uno dei fondatori. Una chiacchiera, due chiacchiere, tre chiacchiere e oggi sono socia di un’azienda che conta un team di ormai 40 persone. Ho fatto la mia gavetta in diverse agenzie (circa 8 stage di cui 2 – per modo di dire – retribuiti): negli anni ho lavorato in diverse realtà e ritengo che Magilla rappresenti nel modo più profondo e intelligente possibile la parola “evoluzione”. Sono partita dal gradino più basso, ovvero l’inserimento dati in excel, per occuparmi di community management, contenuto, advertising, reportistica e poi strategia. Ora come ora sono orgogliosissima di essere cresciuta in realtà diverse fra loro, di cui Magilla è il reale fiore all’occhiello. Diciamo la verità: penso di essermi guadagnata quello che ho ma penso anche di essere stata fortunata perché non potevo trovare soci, colleghi ed essere umani migliori cui sento di dovere tanto.
Spesso tieni corsi per Professional Datagest. L’insegnamento è una dote innata o va affinata?
L’insegnamento è una predisposizione che va allenata. Sempre. In maniera costante. Il nostro cervello è costantemente sottoposto a stimoli di ogni tipo che riducono la capacità di concentrazione. Ottenere l’attenzione altrui è sempre più difficile. Ci può essere una predisposizione al racconto, ma pensare di poter basare la formazione solo su una dote è illusione pura. Il settore ha bisogno di professionisti che si siano sporcati le mani, con una preparazione teorica solida e in grado di non vendere illusioni ma trasmettere know how. Le richieste per corsi di Digital Marketing aumentano. Il tema è che molti si iscrivono pensando che l’unica parte utile del master di un anno sia quella di imparare a postare su Instagram, tralasciando la teoria. Ecco: non può esserci approccio più sbagliato. Un bravo docente deve allenare l’arte dell’interesse e della spiegazione per rendere gli studenti di oggi professionisti interessanti e non “postatori seriali”.
Avendo collaborato con La Stampa, puoi darci una tua visione sull’attuale situazione giornalistica e sull’applicazione nel web di questa professione così nobile?
Domanda complicatissima, soprattutto perché il mestiere del giornalista è passato nel tritacarne grazie alla rapidissima evoluzione dei mezzi di comunicazione. Non è una vita semplice quella del giornalista: da una parte tutti si sentono giornalisti e opinionisti dentro, d’altro canto è innegabile la rigidità autoreferenziale con cui alcuni esponenti usano il digitale. Nella mia esperienza lavorativa sono stata fortunata: ho conosciuto persone come Marco Bardazzi, Bruno Ruffilli e Francesco Zaffarano, ovvero professionisti molto diversi fra loro ma con una visione d’insieme del mondo digitale, tale da garantire un uso intelligente e attuale dei mezzi. Ho poi conosciuto personaggi totalmente disagiati nel comprendere i tempi del web, la differenza dei canali e la necessità di linguaggi diversi per media diversi. Inoltre c’è sempre la convinzione che i giovani giornalisti vadano buttati nella mischia di Twitter, Instagram e Facebook solo perché sono nati con il telefono in mano. A loro lo stress del real time e alle glorie storiche l’onore dei pezzi veramente importanti. Alcune volte sarebbe interessante vedere una commistione generazionale, un contagio costruttivo e non una barriera fra due tipi di approccio al giornalismo.
Ritieni che ci sia qualche modello in grado di risollevare la situazione?
Attualmente il mondo dell’informazione non ha realmente trovato modelli di business alternativi per riuscire a monetizzare senza ricadere nel clic bait. Diciamoci la verità però: questo modello di giornalismo esiste perché qualcuno ne fruisce. Se nessuno usasse questi contenuti, il giornalismo non avrebbe virato verso questa metodologia di comunicazione. Il tema è che dobbiamo ammettere che il giornalismo attuale è il riflesso di ciò che siamo: ingordi divoratori di notizie leggere, utili a staccarci dalle frustrazioni quotidiane, in cerca della gloria di un commento che ci renderà famosi. Ecco. Una volta presa consapevolezza del nostro egocentrismo, la smetteremo di dare al giornalismo colpe che non ha e lo supporteremo fornendogli un nuovo modello di informazione e intrattenimento da cui prendere spunto.