Casa sua è un museo della musica. Un gran coda Yamaha e un Hammond fanno capolino in soggiorno tra caramelle mou sparse, in una perfetta sintesi di antico e moderno. La casa è quella di Pier Carlo Penta, socio di Rimini, pianista, compositore, arrangiatore, fonico e produttore. Diplomato in pianoforte al Cherubini di Firenze e specializzato in pianoforte jazz con Luca Flores e Franco D’Andrea, Pier Carlo non si è mai accontentato di un’unica definizione della parola “musicista”. Così, mentre è reduce, in qualità di fonico, dal concerto di Antonello Venditti all’Arena di Verona, si prepara al nuovo disco del “Pier Carlo Penta Trio”, il progetto che condivide con Daniele Marzi (batteria) e Paolo Ghetti (contrabbasso). Il suo carnet di collaborazioni vanta, tra gli altri, PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Angelo Branduardi, Cristiano De Andrè, ma anche Vasco Rossi, Antonello Venditti, Edoardo Bennato, Fabio Concato, così come la London Symphony Orchestra.
Pianista, compositore, ma anche fonico, arrangiatore, produttore. Cosa rappresenta per te il suono e la musica più in generale?
Il suono e la sua ripresa per me sono stati sempre molto importanti. Quando mi occupo di musica classica il mio obbiettivo è quello di non far percepire l’impianto di riproduzione, per donare all’ascoltatore solo la verità degli strumenti. Con la musica commerciale, invece, devo trattare il suono digitalmente per far sì che possa rispondere alle tendenze del momento e alle necessità artistiche del musicista. Qui le scelte hanno poco a che fare con la verità. Sono certo che il bel suono sia in ogni caso alla base del linguaggio musicale e non. Trovo anche che musica e suono siano maltrattati ormai da tempo. La scomparsa del CD di qualità e apparati HI-FI hanno lasciato il posto a formati e supporti inadeguati a far percepire la bellezza di questo universo sensoriale. Il suono è sì fragore del tuono, ma anche sussurro e a volte silenzio. Parlare invece di musica è difficilissimo. La musica per me è arte e trascendenza allo stesso tempo, la mia passione da tutta una vita. Penso che di musica si “debba” sapere, così come di storia, di letteratura, di matematica e di pittura.
Ad ascoltare si insegna. Ma come si impara?
Potrà sembrare banale, ma io partirei dal silenzio. Sono giunto alla conclusione che finché non riconquisteremo un po’di silenzio, la musica non potrà avere uno spazio adeguato. La proposta incessante di musica di ogni genere in qualsiasi luogo e circostanza costituisce il vero ostacolo alla sua integrazione nella nostra società. Barenboim dice che “l’ultimo suono non è il termine della musica. Se la prima nota è collegata al silenzio che la precede, allora l’ultima deve essere collegata al silenzio che la segue. C’è un ultimo momento di espressività, che consiste precisamente nel rapporto tra la fine del suono e l’inizio del silenzio che lo segue”. Non potrei essere più d’accordo.
L’arrangiatore è una figura un po’ borderline nell’universo musicale. Non è una professione riconosciuta dalla SIAE, anche se spesso è proprio l’arrangiamento a determinare il successo di un brano. Che ne pensi?
L’arrangiatore è il musicista, lo psicologo, lo stratega attento alle tendenze di mercato e non, in alcuni casi il parafulmine dell’artista, un ingegnere del suono e, cosa peggiore per lui, a volte un artista egli stesso. In quest’ultimo caso finisce quasi sempre per realizzare il proprio disco. Immagina di essere contemporaneamente arbitro e giocatore, giudice e imputato, chirurgo e paziente. SIAE o no, l’arrangiatore attento ha alle sue spalle un manager che ottiene per lui i vantaggi economici rispetto a tutti i ruoli che ricopre.
Qual è la parte più difficile del mestiere di fonico?
Distinguerei il lavoro in studio dal live. In studio ci sono difficoltà date dalla lunga e stretta convivenza con l’artista, con il quale devi far decollare e atterrare il progetto con grande equilibrio. Il pericolo in agguato è l’abitudine degli ascolti ripetuti, dannosissimi ai fini dell’obiettività che devi mantenere fino alla data della consegna del master. Come F.H.O. man, invece, nello spettacolo live, ho avuto la fortuna di essere sempre assistito da sound-designer competentissimi, per cui il mio lavoro diventa davvero un piacere. Mentre forse per i fonici di palco è un po’ diverso. Compiono sempre e con qualsiasi artista sforzi e fatiche che non esagero a definirle titaniche. Sono degli eroi per me.
Il tuo progetto solista è confluito nel “Pier Carlo Penta Trio”. Storicamente, nella musica d’insieme il pianoforte è percepito come accompagnamento. Vivi una sorta di declassamento rispetto alla performance solistica quando suoni in trio?
In una formazione jazz o classica come quella del mio trio, il pianoforte, insieme a contrabbasso e batteria, ha a sua disposizione tutto lo spazio necessario per potersi esprimere senza essere declassato. La mia preoccupazione è piuttosto quella di distribuire le parti musicali in maniera omogenea per non rischiare di essere sempre in primo piano. Il piano solo è una responsabilità ma significa anche grande libertà.
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