Chi non ha mai sentito parlare di Uber? Chi non ha mai avuto la tentazione di ordinare una cena con Foodora o Deliveroo? Chi non ha mai pensato di fare un viaggio servendosi di BlaBlaCar o Airbnb?
Dietro queste attività, che ormai attraversano la vita quotidiana di tutti, si celano i giganti della sharing economy, cioè società che hanno appreso come monetizzare tutte quelle interazioni sociali una volta relegate alla sfera dell’informale o del gratuito. Il business delle società della sharing economy è costruito infatti attorno al guadagno ottenuto dal servizio di intermediazione che mette in contatto offerente e utente attraverso una piattaforma costruita ad hoc.
Un sistema che ha fatto sognare in tanti, convinti che la sharing economy avrebbe finalmente riportato un maggiore equilibrio economico suddividendo ricchezze spesso in mano a poche persone. Purtroppo non era previsto che questo sistema avrebbe potuto avvallare la nascita di nuovi monopoli, anzi, la necessità stessa della loro creazione. Trasformando in profitto interazioni sociali, le società della sharing economy dipendono infatti molto dalle variazioni del mercato e della concorrenza. Motivo per il quale hanno anche una grande necessità di acquisire una posizione di monopolio sul mercato.
Gli “unicorni” della sharing economy
Trova eco così anche all’interno della sharing economy il mito delle cosiddette “unicorn companies”, le “società unicorno”, cioè le società digitali che sono valutate più di 1 miliardo di dollari l’anno. E, forti anche dei grandi investimenti alle spalle, società come Uber e Airbnb entrano tra i primi posti della classifica, con fatturati da capogiro e prospettive di crescita enormi.
Ma a discapito delle più rosee aspettative, questa crescita spropositata è avvenuta a caro prezzo portando alla nascita di nuove forme di ineguaglianza e di sfruttamento. Le ricchezze invece di sgocciolare dall’alto verso il basso si sono concentrate ancora una volta nei vertici, cioè nelle mani di coloro che gestiscono le piattaforme. Mentre il lavoro è stato totalmente decentralizzato e i lavoratori trasformati in lavoratori indipendenti senza diritti e senza tutele.
Le “zebre” del cooperativismo di piattaforma
In questo quadro fortemente deludente, alcuni hanno deciso di rilanciare e proporre sulla base delle stesse piattaforme forme più eque di organizzazione. Da qui nasce negli Stati Uniti il movimento del platform cooperativism che connette la cooperazione con il mercato del lavoro online.
L’obiettivo del movimento è quello di superare le ineguaglianze prodotte dalle società della sharing economy attraverso la cooperazione che permette di stabilire nuove forme di equilibrio di denaro e potere costruendo piattaforme digitali con proprietà condivisa e governance democratica.
Le società costruite secondo questa prospettiva, proprio in opposizione agli unicorni, vengono definite “zebra unites”, le “unioni zebra”. Il modello di business delle zebra unites è lo stesso delle piattaforme digitali classiche, la differenza è che i proprietari della società sono i lavoratori stessi che non solo suddividono tra loro equamente i guadagni, ma prendono anche insieme le decisioni imprenditoriali necessarie all’avanzamento dell’attività. Si tratta di “umbrella companies”, le “società ombrello”, che riuniscono sotto di loro i lavoratori per tutelarli e offrire loro migliori condizioni di lavoro.
Le piattaforme digitali per il movimento cooperativo americano sono allora una sfida alla quale rispondere in termini di maggiore equità e giustizia, una linfa vitale che può permettere di parlare di cooperazione in termini nuovi e di introdurre pratiche più responsabili anche nella sharing economy.
Quale futuro per l’Europa?
Questo è quanto accade negli Stati Uniti, in Europa la situazione è un po’ diversa. Non solo perché l’Europa è tagliata fuori dal mercato delle piattaforme digitali (le piattaforme europee controllano solo il 3% del mercato esistente), ma anche perché così com’è in ritardo l’Europa su certi temi, è in ritardo la cooperazione europea. Il movimento cooperativo europeo sembra infatti rincorrere faticosamente l’innovazione tecnologica più che sfruttarla a suo favore. D’altro canto, l’Europa può offrire l’esperienza e la ricchezza di una storia centenaria che possono permetterle di intervenire in modo più lungimirante su questioni riguardanti i diritti dei lavoratori e le loro tutele.
Ad esempio, se oggi l’ingresso dei lavoratori freelance nelle cooperative per essere tutelati è un fenomeno di portata mondiale, le risposte che può fornire l’Europa su questi temi possono essere sicuramente più pertinenti se non innovative rispetto a quelle fornite da Paesi decisamente più arretrati, proprio come gli Stati Uniti.
Di fronte a un mercato del lavoro così incerto, la cooperazione europea si troverà allora di fronte a una scelta importante: trasformarsi in una piattaforma digitale che cerca il successo adattandosi al mercato come zebra unites o umbrella company, e offrire così tutele minime a tutti e a tutti i costi, oppure non cedere alla lotta al ribasso delle tariffe e dei diritti, ma difendere i soggetti deboli attraverso la contrattazione e opporsi all’andamento del mercato scegliendo una via sindacale e di lobby magari rinforzata dall’attivazione dell’opinione pubblica su certi temi.
Innalzare tutto il sistema con Pegaso
Di certo nessuna delle due scelte esclude automaticamente l’altra – almeno finché esisterà pluralità sul mercato e nessuna legge specifica – perché ci saranno probabilmente sempre cooperative a cui basterà essere zebra unites, o anche umbrella company, e lavoratori che, anche se fanno parte di una cooperativa molto impegnata nella difesa dei diritti dei lavoratori, sceglieranno di non partecipare alla sua vita, ma di usarla come umbrella company.
La scelta sta alla governance della cooperativa che deve decidere se inseguire le unicorn companies o richiamare alla memoria gli antichi principi cooperativi di Rochdale che ancora oggi sono il riferimento, sempre attuale, dell’intero movimento.
Metaforicamente si potrebbe dire che la scelta è tra unicorno e Pegaso, il cavallo alato della mitologia greca. Il riferimento a Pegaso vuole essere un richiamo alle origini di quello che siamo come europei e indica insieme la fedeltà al cavaliere e la libertà del poeta di raggiungere le più alte vette del pensiero senza lasciarsi intimorire dagli ostacoli terreni. Perché è vero che alle volte i sette principi cooperativi possono essere ingombranti quando si è costretti a entrare in un mercato estremamente competitivo, ma è proprio grazie a questi che, parafrasando Kant, la persona non è un mezzo ma un fine, il fine del capitale che ogni singolo socio ha investito per produrre i beni e raggiungere gli obiettivi che non saprebbe ottenere da solo e che si è prefissato di conseguire proprio cooperando insieme a tutti gli altri che hanno le sue stesse esigenze.
Una Pegasus company è allora una società che con la sua attività non si accontenta di riunire i lavoratori e tutelarli, ma che vuole innalzare tutto il sistema all’interno del quale si situa riscrivendo le regole del gioco in modo che tutti stiano meglio, non solo coloro che scelgono di far parte della cooperativa. Perché le ali di Pegaso sono abbastanza forti per sollevare tutti da terra, nessuno escluso.